Letizia Moroni   Per condividere con voi idee, pensieri, considerazioni...

Il mondo del lavoro

Quando si parla di lavoro c’è sempre una retorica di base che vuole che tale parola si associ alla parola giovani.
La verità è che non è vero che manca il lavoro per i giovani.
Il lavoro manca e basta.
La cruda realtà è che l’Italia è gremita di licenziati, esodati, prepensionati e precari, la percezione della gente chiama questo scenario con un nome, disoccupazione, la politica, mentendo, dà, al medesimo scenario, il nome di risanamento, azione che secondo la classe dominante si ottiene vendendo, chiudendo, spostando una grande impresa dall’altra parte del mondo, realizzando una fusione di aziende diverse, in cui più della metà del personale è in esubero, rendendo asciutta e ipocritamente moderna un’impresa che va bene, in modo da “premiare” investitori e manager fregandosene dei lavoratori, che da molti anni a questa parte, sono, guarda caso, sempre in esubero.
La strategia vincente, al momento, per allontanare la percezione della realtà da parte delle persone, è la guerra tra poveri e precari che spesso si vive sul luogo di lavoro.
Nel dicembre del 2015 i dipendenti della Regione Lazio hanno accusato i precari che lavorano nelle segreterie politiche, di essere la causa del loro mancato salario accessorio ed hanno spinto la loro protesta, appoggiata da tutte, e dico tutte, le sigle sindacali (che avevano anche aperto il voto per l’elezioni degli RSU ai precari), fino al punto di chiedere che i contratti del personale delle strutture politiche non sarebbero dovuti essere rinnovati, praticamente si invocava la morte dei precari per far sì che i regionali (a tempo indeterminato) potessero avere un salario più alto. Una scena indegna in un paese civile, una scelta sindacale indegna, ingiusta e populista.
Ricordo a tal proposito i fatti della marcia dei 40.000, una manifestazione che si tenne a Torino il 14 ottobre 1980e che vide migliaia di impiegati e quadri della FIAT sfilare per le strade del capoluogo piemontese in segno di protesta contro i picchettaggi che impedivano loro, da 35 giorni, di entrare in fabbrica.
La manifestazione ebbe come effetto diretto quello di spingere il sindacato a chiudere la vertenza con un accordo favorevole alla FIAT e venne convenzionalmente indicata come l’inizio di un radicale cambio di relazioni tra grande azienda e sindacato nel Paese.
Soprattutto è lo specchio di un’Italia dove l’interesse personale prevale su una logica più ampia della rivendicazione dei diritti. I quadri della Fiat non appoggiarono gli operai e qualche anno dopo, gli stessi quadri subirono un licenziamento indiscriminato da parte dell’azienda, la miopia di chi non capì l’importanza delle rivendicazioni operaie fu la causa di una perdita di lavoro generalizzata.
Altra menzogna pericolosa è quella della guerra generazionale per la quale ogni anziano deve apparire come il vero ostacolo ai diritti di un giovane.
In questo clima di guerra tra “poveri contro precari” si esulta quando si licenziano gli statali, a causa di un’invidia cieca verso chi ha lavoro, (ricordiamo la storia dell’Alitalia, con la convinzione che le centinaia di esuberi siano perdigiorno finalmente stanati) perché il pensiero delle masse è: tu hai un posto che toccava a me e che io occuperei molto meglio di te.
Purtroppo, in questo momento così drammatico, non esiste un partito che dica a gran voce che il lavoro è la forma necessaria di ogni tipo di società quando ha raggiunto un grado di civiltà, nel nostro caso la società descritta dalla Costituzione italiana.
Alcuni sociologi affermano che il lavoro ha senso nella lunga durata delle strutture sociali, quando si produce ad esso e si investe nella ricerca per il futuro.
Oggi purtroppo dominano le borse, dove conta solo ciò che si incassa nell’immediato, e dove l’agire frettoloso del potere serve a mantenere profitti nell’immediato senza una programmazione futura.
La carenza di lavoro spinge alla ricerca di un lavoro in un quadro generale desolante, dove c’è un’assenza preoccupante di enti che dovrebbero indirizzare le persone nelle scelte da fare.
Infatti, negli ultimi anni, il mondo del lavoro si è stravolto: le aziende sempre di più richiedono lavoratori adattabili alle esigenze produttive, scambiando la parola “flessibilità” con schiavitù, il concetto di “prestazioni” con l’imposizione di orari assurdi e lavoro malpagato.
Il “posto fisso”, quello che ti accompagna fino alla pensione, che paga le tasse al centesimo e che tanto ingiustamente ridicolizza Checco Zalone nel suo film “Quo Vado” considerandolo la rovina del Paese, e che invece garantisce reddito fisso e sicurezza, anche se reddito fisso “insufficiente” sarebbe la definizione più adatta, non c’è più, perché la logica del profitto insegue come finalità il guadagno e non il diritto alla dignità .
In un paese civile in cui vengono riconosciuti diritti e doveri ai lavoratori e stipendi adeguati al costo della vita, cambiare, può essere perfino stimolante, perché costringe a un riadattamento a situazioni e professioni nuove.
Nel nostro paese “cambiare” lavoro significa doversi reinventare senza nessuna tutela, con stipendi miseri e spesso pagati in nero.
I salari italiani sono i più bassi tra i paesi fondatori dell’Unione Europea. Una delle cause, la più macroscopica, è stata l’aumento massiccio del lavoro precario, aumento che l’Istat rivela essere stato del 15% negli ultimi anni, percentuale altissima causata dal fatto che le imprese sostituiscono la forza lavoro stabile e qualificata con forza lavoro precaria e atipica, con contratti cioè debolissimi, che aggrediscono le condizioni del lavoratore stabile. In Italia, accade che coloro che lavorano si trovano in condizioni economiche simili a quelle del disoccupato assistito.
Un altro aspetto nel mondo del lavoro, di cui molti esperti parlano, è la funzione della” tecnica”, non più uno strumento del lavoratore ma strumento- studio attraverso il quale ottimizzare l’impiego minimo delle risorse umane per perseguire il massimo dell’utile.
Progetti a lunga durata non se ne possono più fare, perché la” tecnica” preferisce soprattutto l’immediato.
Alla progettazione di lungo periodo è subentrata quella di breve periodo.
In questo quadro generale si chiede al lavoratore di cambiare tattiche e stili in maniera veloce, cioè si pretende “flessibilità” naturalmente a basso costo e in alti termini di efficienza e funzionalità, perché la “macchina” resta il modello da imitare. ”.
La precarietà coinvolge quasi 4 milioni di individui, tra i quali uno su quattro non è occupato, si finge di ignorare che i rapporti a termine creano ghettizzazione professionale ed emarginazione sociale perché il lavoratore vi rimane intrappolato: basti pensare che oggi, chi ha un contratto a termine, stenta a ottenere prestiti e ad affittare appartamenti, impossibile quindi costruirsi un percorso in campo professionale ed anche in campo esistenziale e familiare. Impossibile per un precario costruirsi un futuro solido , impossibile per un precario parlare di “certezze”.

In questo quadro sconfortante è cambiato anche il lessico, oggi giorno trovare solo la parola lavoro è impossibile, c’è sempre qualcosa che deve essere aggiunta: lavoro a contratto, lavoro interinale, lavoro part-time, lavoro con tante specificità che ci si perde dentro, ma alla fine il succo è sempre quello: precarietà e flessibilità, una precarietà che ci rende alienati, impotenti e insicuri e che crea una tristissima lotta fratricida : ognuno cerca di dare quanto più può al datore di lavoro, accettando anche ricatti, pur di lavorare di più rispetto ad altri compagni, dimenticando che le lotte sindacali hanno ottenuto che il lavoro venisse considerato un bene comune: lavorare è un diritto non un privilegio. Non è da dimenticare la piaga del lavoro sommerso dove soprusi, sfruttamento, mancanza di sicurezza ed evasione fiscale, rendono questa realtà un inferno che arricchisce persone senza scrupoli e parassite che vivono dei disagi e del bisogno degli altri.
Gli extracomunitari che stanno ancora peggio di noi, sono anch’essi vittime della nuova economia basata sul profitto e sullo sfruttamento, poveri contro precari e tutti contro gli “ultimi”, i valori del lavoro e le relazioni umane, nel tempo, sono state destrutturate perdendo di vista il concetto della solidarietà .
Oggi più che mai il mondo è dei ricchi grazie anche alla collaborazione inconsapevole dei poveri.
Le forze politiche di sinistra che erano riuscite a mobilitare i poveri, si sono vendute ai ricchi.
C’è stato un periodo in cui lo Stato riteneva che gli eccessi di ricchezza e povertà avrebbero reso la società disequilibrata e quindi inospitale, la pace informale, tra ricchi paternalisti e portavoce dei poveri, aveva consentito un equilibrio leggermente più egualitario, ma questo Stato sociale ha subito attacchi durissimi nel tempo, la riforma vergognosa inumana della Fornero, l’abolizione dell’articolo 18, l’attacco al contratto collettivo di lavoro, stanno contribuendo a portare il Paese verso una povertà generalizzata, e verso un’oligarchia di poteri che sta cancellando lo Stato sociale.
La partita i ricchi l’hanno vinta partendo dalla politica, la competizione elettorale possono vincerla solo i rappresentanti dei ricchi o i rappresentanti dei poveri accondiscendenti coi ricchi, la riforma elettorale mira a questo, l’obiettivo è soffocare annientare ogni voce dissenziente.
La guerra dei poveri contro i poveri è la loro arma segreta.
I poveri della Cina, o della Romania, fanno guerra ai poveri d’occidente, i poveri di Germania fanno la guerra ai poveri d’Italia o Spagna. Se Italia e Spagna diventano più povere, s’illudono di diventare più ricchi. Ma le dinamiche sono sempre le stesse: le loro fabbriche avranno meno concorrenza, dimenticando che quando italiani e spagnoli saranno poveri abbastanza sarà conveniente delocalizzare le fabbriche tedesche in Italia o Spagna, e poi: chi comprerà i prodotti delle fabbriche tedesche? Gli stessi calcoli stupidi li hanno fatti gli italiani del nord a spese di quelli del sud ora il sud è affondato e il nord va alla deriva.
Avete fatto caso che i poveri sono invisibili? La ricchezza finanziaria è infinitamente meno visibile delle vecchie forme di ricchezza, quindi più difficile da controllare, questo tipo di ricchezza sta impoverendo anche quello strato di benestanti che era nel mezzo tra super ricchi e i poveri
Per ora i poveri sono depressi, rassegnati impotenti e sfiduciati a qualsiasi lotta.
Renzi ha ben capito che aizzare precari e disoccupati contro quei pochi che hanno un posto fisso (e che pagano regolarmente le tasse), porta a depistare gli italiani dalle spese reali che producono debito pubblico: la corruzione, l’evasione fiscale, i mega appalti per le grandi opere pubbliche.
C’è però una sinistra che non ha tradito, ma che preferisce litigare sulle bugie di Renzi, sull’irredimibile malvagità del capitale e magari su qualche posto in lista.
Il problema non è neppure dar vita a un nuovo partito.
A Civitavecchia c’è un’oasi di socialismo che si chiama Compagnia Portuale guidata da anni dal Presidente Enrico Luciani che ha saputo trasformare l’utopia in realtà.
La CPC di Civitavecchia è una cooperativa autogestita di portuali che ha saputo resistere ai continui attacchi del capitale e del profitto , sopravvivendo alle privatizzazioni feroci dei decreti- Prandini.
La CPC di Civitavecchia applica la distribuzione del profitto tra i lavoratori, dall’esame delle buste paga emerge chiaramente che il Presidente ed il gruppo dirigente, democraticamente eletti dai soci lavoratori, guadagnano meno di un lavoratore che opera nelle stive.
Ma la politica ed il sindacato non hanno mai valorizzato un tale modello che, proprio in virtù dell’assenza di profitto, non solo resiste alla crisi, ma è in grado di assumere come è accaduto quest’anno, circa 110 nuovi lavoratori.
Nonostante questo, in tutte le competizioni elettorali, Luciani può contare esclusivamente sulle forze del territorio nel quale ha saputo radicarsi attraverso il lavoro e l‘occupazione, tra l’indifferenza del suo partito di appartenenza e delle forze sindacali, entrambi troppo concentrati alla rispettiva sopravvivenza oligarchica che al riconoscimento delle vere eccellenze territoriali.
La gestione Luciani della CPC di Civitavecchia non è mai stata nè premiata, nè pubblicizzata, eppure è l’attualizzazione di un modello che le sinistre radicali ed il sindacato considerano, a parole, l’unico che può salvarci dalla morsa del capitale.
A Luciani non è stato consentito di avere la possibilità di sedere in Parlamento come rappresentante dell’ultima roccaforte dei quadri operai, rispetto ai comunisti da camera ed ai radical chic che teorizzano sul lavoro ma non hanno mai provato sulla loro pelle cosa significhi veramente.
Il potere piace anche ai duri e puri della sinistra radicale, e quando si tratta di poltrone, le dinamiche sono da….tutto il mondo è paese.

Letizia Moroni
Gennaio 2016


Interessante anche dare un’occhiata all’intervista che riporto a seguire.

Intervista a Walter Passerini, autore de “La guerra del lavoro” Su Rapporto Giovani

Walter Passerini, giornalista, docente di Linguaggi giornalistici e Sistema dei media all’Università Cattolica di Milano-Scuola di Giornalismo, grande esperto delle tematiche del lavoro e co-autore del libro “La guerra del lavoro” ” (editore Rizzoli, pagine 414, euro 13),

Professor Passerini, gli scenari sull’occupazione giovanile in Italia sono particolarmente preoccupanti. Come si può uscire da questo tunnel secondo lei?
C’è un clima depressivo che va fermato, che viene spesso alimentato dai media. La situazione occupazionale dei giovani è grave, ma non è un mantra impotente: bisogna passare dalle diagnosi alle proposte. Ci sono tre questioni su cui lavorare: la prima è quella di una riflessione sull’offerta formativa che deve adeguarsi ai mutamenti della realtà (appare critica la transizione dalla secondaria superiore all’università, che rivela troppa dispersione e disorientamento dei giovani e delle famiglie; appare anche matura una nuova offerta formativa post-diploma di tipo terziario professionalizzante); la seconda riguarda il mercato del lavoro, che nelle forme attuali penalizza i giovani con contratti flessibili che, in assenza di adeguati servizi all’impiego, si trasformano in una condanna alla precarietà; la terza riguarda le culture del lavoro dominanti, che da un lato hanno ridotto il valore del lavoro, dall’altro sono prigioniere di una visione che immagina il lavoro esclusivamente come lavoro dipendente. E’ necessario pensare al futuro del lavoro, invece, come lavoro “indipendente” e “intraprendente” e non solo “dipendente”.

Nel suo libro ha citato i dati del Rapporto Giovani: cosa l’ha colpita in particolare della ricerca in questione?
Intanto l’ampiezza e la rigorosità della ricerca, che correttamente è sempre in movimento, non fotografa ma filma e aggiorna. Sui risultati, ho apprezzato la maturità, una disillusione pragmatica e aperta dei giovani e la permanenza della speranza verso il futuro. Sui valori del lavoro emersi, se è vero che è ancora forte il peso della cultura strumentale (“il lavoro è uno strumento diretto a procurare reddito”), mi consolano e mi stimolano le visioni che assegnano al lavoro una funzione di “forte impegno sociale”, una “modalità per affrontare il futuro” e una “modalità di autorealizzazione”. Spero nella crescita dei modelli espressivi e solidali.

I Neet sono un fenomeno sempre più rilevante ma su cui occorre compiere analisi più approfondite. Lei come vede la realtà dei giovani che non studiano né lavorano?
E’ il frutto della mancanza e dell’inadeguatezza delle politiche e delle culture dell’orientamento, il segno della rassegnazione e del fallimento delle politiche formative, la scarsa lungimiranza delle politiche del lavoro. Se i Neet under 29 sono stimati in 2,3 milioni in Italia, mi preoccupa l’inerzia dei decisori politici, economici e formativi e l’abulìa della società, che tende a rimuovere il problema. Più che di stanchi e inefficaci interventi, avremmo bisogno di terapie d’urto e programmi di emergenza. Primo tra tutti la costruzione di una rete di servizi all’impiego, pubblici e privati, degna di questo nome, che verrà presto messa alla prova dall’avvio della cosiddetta Garanzia giovani, il programma europeo per ridurre la disoccupazione del Neet e degli under 29.

In parlamento si sta discutendo molto del Job Act, la riforma del lavoro voluta dal premier Renzi. Quali effetti potrà avere sull’occupazione, specialmente quella giovanile?
La priorità è il lavoro, che non arriva per il magico incontro automatico della domanda e dell’offerta. Bisogna puntare sulla crescita e sulla creazione di lavoro, termini che fanno sorridere alcuni benpensanti, che pensano che il lavoro cada dal cielo. La forza del Job act sta nella velocità e nell’integrazione di tre obiettivi: la razionalizzazione delle formule contrattuali; l’individuazione di alcuni settori prioritari di sviluppo su cui puntare; la semplificazione del fare impresa e la sburocratizzazione del sistema pubblico, che ha un ruolo decisivo sulle politiche di welfare, sugli ammortizzatori sociali e sulla creazione di servizi efficaci. Il diritto al lavoro del futuro è il diritto ai servizi per il lavoro.

Nel suo libro parla di proletarizzazione dei professionisti. Come è avvenuto questo cambiamento? E che modalità avrà nei prossimi anni?
La tendenza all’appiattimento è generale. Il sistema delle professioni sta subendo una rivoluzione e non riesce ancora a gestirla. Ci sono ancora troppe sacche di resistenza nelle cosiddette professioni ordinistiche, nascono nuove professioni che non hanno alcuna identità. La polverizzazione e la proletarizzazione dei giovani professionisti è la conseguenza di questi processi. E’ finito il tempo in cui diventare avvocato, dottore commercialista e per certi versi anche notaio garantiva il futuro. Ci sono giovani avvocati, dottori commercialisti e consulenti del lavoro che hanno redditi inferiori ai 10mila euro all’anno. E’ la conferma dell’esistenza dei “working poors”: si può essere poveri pur avendo un lavoro; si può essere poveri avendo studiato ed essendo dei professionisti. La difesa delle professioni non può più essere fatta in chiave conservativa, ma aprendosi al mondo e alle nuove opportunità.

Prendendo spunto dal titolo del suo libro, il mondo del lavoro è davvero diventato un campo di battaglia? Ci può spiegare meglio questa definizione?

Più che una battaglia è la prossima e già cominciata “Guerra dei trent’anni”, che sarà una guerra per il lavoro. A due livelli: il primo è la dimensione della globalizzazione, che vede emergere nuovi commensali, che creano movimenti, conflitti e flussi destinati a destabilizzare i rapporti internazionali esistenti (vedi i Brics, i Mint, i Next e così via); il secondo è all’interno dei singoli paesi, nei quali si sviluppano diverse guerre ai diversi livelli: dipendenti contro autonomi, precari contro professionisti, giovani contro adulti, disoccupati contro occupati, e così via. Ogni guerra crea vittime, è uno scontro tra vincitori e vinti. La “Guerra del lavoro” non è pacifica e non ammette diserzioni: tutti ne sono coinvolti, nessuno è al sicuro. Qualcuno sostiene che il lavoro è e sarà sempre più scarso. E’ un’affermazione discutibile ed eurocentrica. Nel mondo il lavoro regolare sta crescendo, anche se permangono il “dumping sociale” e il “dumping dei diritti”. Ci vuole una nuova regìa nel mondo tra paesi ricchi e paesi poveri e all’interno dei paesi più maturi, e per ora fortunati, è necessaria una nuova classe dirigente. Serve una nuova leadership, il cui obiettivo morale, prima ancora che economico, sia quello della creazione di lavoro, di occupazione, di ricchezza, per offrire pari dignità e pari opportunità a tutti, soprattutto ai più deboli.


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